lunedì 29 dicembre 2014

Strage di ragazzini al confine tra Eritrea e Sudan





di Emilio Drudi

Tredici ragazzini, sette donne e sei maschi, sono stati uccisi a raffiche di mitra dalla polizia di frontiera eritrea mentre cercavano di attraversare il confine con il Sudan. E’ stata  una strage a freddo, avvenuta verso la fine dello scorso settembre, vicino alla piccola città di Karora, ma scoperta soltanto tre mesi dopo, quasi alla vigilia di Natale.
Proprio perché è rimasto a lungo segreto, non sono chiare le circostanze del massacro. Si sa per certo che le vittime, di età compresa tra i 13 e i 20 anni, facevano parte di un gruppo di 16 giovanissimi che, nascosti su un camion, si stavano dirigendo verso il Sudan, accompagnati e sotto la scorta di un “passatore-guida” ingaggiato dalle loro famiglie. Avevano scelto, per la fuga, una delle vie più battute dai profughi, la cosiddetta “Ghindae-Port Sudan Route”, che parte dal centro agricolo di Ghindae, nella regione eritrea del Mar Rosso Settentrionale, e termina appunto a Port Sudan, centinaia di chilometri più a nord.
Stando alle prime notizie filtrate, i soldati hanno aperto il fuoco non appena si sono resi conto che il camion stava per varcare la frontiera, intuendo che a bordo dovevano esserci dei profughi risoluti a scappare. L’ordine della dittatura, infatti, è di sparare a vista, mirando a uccidere, contro chiunque tenti di espatriare clandestinamente, specie se si tratta di giovani nell’età della leva militare. Come erano, in effetti, quasi tutti i 16 ragazzi. Non c’è stato scampo: le raffiche hanno fatto strage.
I corpi delle tredici vittime sono stati recuperati dagli stessi militari e sepolti in segreto in una fossa comune anonima, forse per cancellare ogni traccia e magari la memoria stessa del crimine. Ignota la sorte dei tre superstiti. Questa volontà di “negare tutto” è stata però smascherata dal dolore e dalla forza di volontà di un padre, Tesfahanes Hagos, un colonnello dell’esercito, invalido ed eroe della guerra di liberazione contro l’Etiopia. Tra i morti ci sono anche tre delle sue figlie – Arian (19 anni), Rita (16 anni) e Hossana, la più piccola, appena tredicenne – fuggite insieme per cercare di raggiungere la madre in Canada. Insospettito dalla prolungata, totale mancanza di notizie, dopo circa un mese l’ufficiale ha cominciato a indagare, ripercorrendo più volte la presumibile via di fuga scelta dalle sue ragazze e bussando ostinatamente a mille porte, senza arrendersi di fronte agli ostacoli e al muro di silenzio eretto dalla polizia. Fino a che ha portato alla luce il massacro.
Il suo calvario è stato raccontato ad Asmarino, un giornale online della diaspora eritrea, da un amico di famiglia che, per ovvie ragioni di sicurezza, chiede l’anonimato ma che, con la sua testimonianza, consente di aggiungere altri particolari alla ricostruzione della tragedia.
Tesfahanes Hagos è ancora un militare in servizio attivo. “Opera con mansioni di ufficio – racconta il testimone – nella zona di Embatkala, una base destinata a un addestramento speciale detto ‘Ranger’. E’ padre di cinque figlie. La prima, dopo essersi sposata, si è trasferita in Canada, dove è stata successivamente raggiunta dalla madre. Le figlie rimaste ad Asmara (le tre minori: ndr) hanno trovato dei mediatori (è il termine con cui vengono chiamati gli organizzatori delle fughe dei profughi: ndr) i quali hanno assicurato che avrebbero potuto portarle fuori. E’ iniziato così il viaggio da Asmara a Massawa. Il piano prevedeva di proseguire in direzione del Sahel, verso Karora, nel nord dell’Eritrea. E di raggiungere così  il Sudan. Quando le ragazze sono giunte a Massawa, la sorella che vive in Canada è stata avvertita della loro partenza. Lei stessa, allora, ha contattato il mediatore, il quale le ha specificato che il gruppo era composto da 9 ragazzi e 7 ragazze e che tutti erano riusciti a partire. Era intorno al 9 settembre”.
Sembra fatta. Dal Sudan non giungono però notizie. Per settimane. Né al padre rimasto ad Asmara con la seconda figlia, né alla madre e alla sorella in Canada. Appare chiaro, a questo punto, che le tre ragazze in Sudan non ci sono mai arrivate: sono sparite. Sempre più preoccupato, l’ufficiale inizia lui stesso a fare ricerche. “E’ in gravi condizioni di salute – ricostruisce il testimone – ma ha deciso di andare in giro per il paese a cercarle. Meno male che non ci ha rimesso la pelle anche lui. Alla fine si è arreso ed ha deciso di rivolgersi alle autorità per denunciare l’accaduto. Le autorità di governo gli hanno risposto che le sue figlie erano sotto la loro custodia. Per liberarle avrebbe dovuto pagare una certa somma. Io non so a quanto ammonti questa somma. Credo si aggiri sui 2 milioni di nakfa (circa 110 mila euro al cambio ufficiale: ndr)… Posso assicurare, però, che ha dovuto pagare”.
Circa 110 mila euro sono una cifra enorme per l’Eritrea. Per avere un’idea, basti considerare che il salario mensile di un medico arriva si e no a 30 euro. Ma, versata l’ammenda pretesa dallo Stato, si riaccendono le speranze. Invece le ragazze erano già state uccise, insieme a gran parte dei loro compagni. “Dopo circa tre mesi – racconta infatti l’amico che ha accettato di parlare – le autorità hanno comunicato al padre che le sue figlie erano state ritrovate morte da militari della Marina e che poteva andare a prendere le salme, anche se sarebbe stato difficile riconoscerle, perché in tutto erano stati rinvenuti 13 corpi. Ora, dunque, si sa per certo che di 13 dei 16 fuggitivi si sono trovate le salme. Degli altri tre non si sa che fine abbiano fatto. Possono essere morti come possono essere vivi: ancora nessuno sa cosa sia realmente successo… Non conosco direttamente la fonte, ma un uomo ha testimoniato che alla partenza (da Karora: ndr) c’è stata una gran confusione, seguita da sparatorie. Non è un fatto accertato: sto riferendo quello che si vocifera. Quello che credo io, come la maggior parte della gente, è che le ragazze siano state uccise (al posto di frontiera: ndr), perché se un’autorità dichiara di aver in mano delle persone, poi ne è direttamente responsabile. D’altra parte, se le avessero trovate morte, avrebbero potuto dichiararlo fin dall’inizio: non dopo svariati mesi, dopo aver preteso i soldi. Cos’è realmente successo, chi è stato, come è avvenuto non si potrà mai saperlo per certo: non c’è nessuna indagine in corso. Non si potrà mai sapere la verità, insomma, perché il Governo è colluso in questa faccenda. Ma la gente è convinta che questi ragazzi siano stati fucilati lì, sul momento…”.

Una cosa però è emersa. Si è scoperto che figli di esponenti del governo, militari ed ex militari, erano anche quasi tutti gli altri giovani trucidati insieme alle tre figlie del colonnello: la maggioranza di loro veniva infatti dal Denden Camp, un quartiere-villaggio di Asmara allestito per funzionari dell’apparato statale, per ufficiali reduci e invalidi dell’esercito e per le loro famiglie. Forse per questo la strage è stata avvolta in un segreto così rigido: la tragica fuga di quei ragazzini dimostra che sono sempre più insofferenti al regime anche interi settori del “palazzo”, magari protagonisti della lotta che ha portato all’indipendenza dell’Eritrea. “Una lotta tradita dalla dittatura di Isaias Afewerki che si è insediata ad Asmara dal 1993”, denunciano i principali leader della diaspora in Africa, in Europa e in America.

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