lunedì 1 luglio 2013

Profughi: violenze alle frontiere e violenze in Europa



di Emilio Drudi


Massacrati di botte sulla linea di confine. A Melilla, enclave spagnola e dunque dell’Unione Europea nel Nord Africa, in Marocco. Un pestaggio sistematico, brutale e assolutamente immotivato, contro un centinaio di profughi e migranti. Da parte della polizia. Accade spesso alle frontiere. E non solo alle frontiere. Stavolta, però, questo abuso inumano è stato documentato, trascinando sotto accusa la Guardia Civil spagnola e le milizie ausiliare marocchine.

Era l’11 marzo di quest’anno. Circa cento giovani fuggiti da vari paesi dell’Africa occidentale e sub sahariana (Mali, Gabon, Camerun, Burkina Faso, Guinea, Ciad e Senegal) tentano di attraversare la munitissima border line tra il Marocco e Melilla. Vengono intercettati da pattuglie della Guardia Civil e della polizia marocchina. Non hanno scampo. Pensano che li aspetti un centro di internamento e magari un foglio di via per il rimpatrio forzato. Va molto peggio: comincia una specie di mattanza. Il bilancio è terribile: un giovane muore dopo qualche giorno, decine di altri risultano feriti gravemente. Respinti in Marocco, terrorizzati, vengono raggiunti in un accampamento di fortuna da un gruppo di volontari dell’associazione umanitaria Alecma. Tra i soccorritori c’è anche la regista veronese Sara Creta la quale, insieme a un altro cineoperatore, Sylvin Mbarga, camerunense, documenta le pesantissime conseguenze della violenza e raccoglie le testimonianze delle vittime, sia scritte che registrate in audio-video. “Hanno usato pietre e mazze di ferro per colpirci”, denunciano molti. Uno dei feriti, Clement, profugo del Camerun, muore sotto gli occhi di Sara Creta, prima che arrivi un’ambulanza per trasportarlo in un ospedale: ha lesioni devastanti alla testa, un braccio e una gamba fratturati. Tutto il suo misero guardaroba si riduce alla maglietta da calcio con il numero 9 che ha indosso. La sua vicenda e quella dei suoi compagni diventa un documentario agghiacciante: intitolato “N. 9”, come la t-shirt di Clement, il film, uscito in questi giorni, sta destando una sensazione enorme ed ha dato vita in tutta Europa alla campagna “Stop alla violenza alle frontiere”. Ma non soltanto alle frontiere, perché la violenza è ormai quasi la norma nel rapporto delle istituzioni con disperati come Clement e gli altri.

In Libia, promossa dall’Europa al ruolo di “gendarme del Mediterraneo” contro l’emigrazione clandestina, torture, pestaggi e soprusi sono la vita quotidiana dei profughi e dei migranti rinchiusi in tutti le carceri e nei campi di detenzione, autentici lager che l’ipocrisia europea si ostina a chiamare centri di accoglienza. E’ eloquente il dossier presentato alle commissioni affari sociali e interni della Ue da parte di don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia, circa un anno fa e via via aggiornato con diversi rapporti integrativi. L’ultimo è di queste settimane, corredato anche da una serie di fotografie “rubate” con un cellulare e fatte uscire clandestinamente dal campo di Burshada. Ma l’indifferenza della comunità internazionale non ne è stata scalfita. Nessuna reazione, in particolare, dall’Italia, nonostante abbia stipulato con il governo Berlusconi e rinnovato con Monti un accordo bilaterale che assegna a Tripoli il compito di blindare con ogni mezzo il Canale di Sicilia, bloccando i profughi in mare mentre tentano di raggiungere Lampedusa o la penisola, presidiando la costa per impedire gli imbarchi o arrestando in massa quei disperati nelle città o appena hanno varcato, in pieno Sahara, il confine libico. Non a caso gli oltre venti campi di detenzione sparsi nel paese sono strapieni, già di per sé invivibili per il sovraffollamento e la mancanza di servizi, di assistenza, cibo e persino acqua potabile sufficiente, senza contare i continui maltrattamenti, gli abusi, le percosse, le violenze a cui si abbandonano i militari e i miliziani di guardia.

“Un vero inferno”, denunciano tutti i testimoni delle organizzazioni umanitarie. Un inferno destinato probabilmente ad inghiottire ancora migliaia di vittime. Tutto lascia prevedere, infatti, che in Libia come nell’intera fascia dell’Africa settentrionale il flusso di richiedenti asilo e migranti, lungi dal diminuire, continuerà ad aumentare. Una delle vie di fuga dei profughi, specie dal Sudan e dal Corno d’Africa, quella israeliana attraverso il Sinai, si è chiusa. Tel Aviv ha terminato di costruire una impenetrabile barriera di filo spinato lungo il confine egiziano, eliminando di fatto ogni possibilità di ingresso e completando così la politica dei respingimenti nel deserto, prima della frontiera. Contemporaneamente, il governo sta predisponendo l’espulsione di gran parte dei 60 mila rifugiati, soprattutto sudanesi ed eritrei, arrivati negli ultimi anni. E’ lecito attendersi dunque che, sbarrato il Sinai, anche il flusso che passava di lì si riverserà sull’Africa settentrionale e, dunque, sul nostro Mediterraneo. Forse anche per questo corre voce che il trattato tra Italia e Libia verrà riesaminato per arrivare a forme ancora più restrittive. Mentre nessuno sembra ricordarsi e tener conto di violenze tremende come quelle denunciate a Melilla o nelle carceri di Tripoli.

Ci sono, del resto, anche altre forme di violenza. Spesso direttamente in Europa, frutto di indifferenza, burocrazia, insensibilità, norme e procedure assurde. Magari hanno meno eco, tra la gente e sui giornali, delle torture e dei maltrattamenti feroci che di tanto in tanto riescono a portare alla luce le denunce del Commissariato Onu per i rifugiati e delle organizzazioni umanitarie. Tuttavia finiscono anch’esse per “uccidere dentro”, a poco a poco, centinaia, migliaia di giovani che hanno lanciato il loro grido d’aiuto all’Occidente, in nome dei diritti umani e delle convezioni internazionali. E’ quanto emerge da una nuova protesta di don Mussie Zerai, questa volta a proposito dei Cara, i Centri di accoglienza per i richiedenti asilo. In particolare, quello di Caltanissetta. Il caso è stato portato direttamente all’attenzione del ministro dell’interno Angelino Alfano.

In base alle procedure, dopo aver ottenuto dalla Commissione territoriale lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, i profughi dovrebbero essere trasferiti nei circuiti dello Sprar, il Servizio per la protezione dei richiedenti asilo, o in altri centri simili, per aiutarne il processo di integrazione in Italia, fino al pieno inserimento nella società. Secondo le testimonianze raccolte direttamente da don Zerai, invece, a Caltanissetta starebbe accadendo esattamente il contrario: “Dopo il pronunciamento della Commissione – racconta il sacerdote eritreo – i migranti vengono messi fuori dal Centro di accoglienza senza aver nemmeno ricevuto tutti i documenti previsti. Per averli devono tornare dopo 40 giorni. Ma nessuno si preoccupa di come, privi di qualsiasi risorsa, senza un alloggio, senza soldi, senza lavoro, potranno vivere in quei 40 giorni. Ovvero, vengono di fatto consegnati ad ogni genere di sfruttamento o anche peggio. Non solo. Per il rilascio del primo permesso e del biglietto per il viaggio verso la località indicata per il soggiorno, è richiesto il pagamento di 127 euro. Può sembrare una cifra non elevata. Ma bisogna tener conto che queste persone sono state letteralmente ‘pescate in mare’, senza un solo euro in tasca. Dal giorno del loro arrivo in Italia sono stati ospiti di centri di accoglienza e, dunque, non hanno avuto alcuna possibilità di lavorare e di mettere insieme qualche soldo per le necessità più urgenti. Ecco perché non hanno quei 127 euro. E’ essenziale, allora, che il rilascio del primo permesso e del documento di viaggio sia a carico dello Stato. Come avviene del resto in tutta Europa. Altrimenti, una volta usciti dal Cara, questa gente si ritroverà allo sbando, per volontà dello Stato stesso. Con in tasca il parere positivo della Commissione territoriale sulla loro domanda di asilo, ma senza denaro, senza cibo, senza alloggio. Costretti a mendicare un piatto di minestra e a dormire dove capita: per strada, in un portone, in una delle infinite baraccopoli di ‘invisibili’ e ‘non persone’ sparse in tutta Italia. Braccia da sfruttare in nero e rischi infiniti di ogni genere”.

E’ difficile non definire anche questa una violenza. Sia pure con tutte le “procedure” legali formalmente a posto. E, ovviamente, con effetti immediati sulle persone e un impatto “esterno” molto minori del massacro di Melilla o delle torture libiche. Si potrebbe obiettare che, in tempi di crisi e di ristrettezze come quelli che stiamo vivendo, è difficile per lo Stato accollarsi queste spese. Sarà bene, allora, fare un po’ di conti per capirne l’entità. Secondo i rapporti annuali della Caritas, ogni anno in Italia vengono presentate in media 35 mila richieste di asilo. Nonostante l’opinione diffusa, molte di meno di quante ne ricevano altre nazioni, a cominciare dalla Francia, prima in Europa con una media di 50-55 mila l’anno. Di queste 35 mila, in genere ne vengono accolte la metà circa. Dunque, 17 o 18 mila che, moltiplicate per 127 euro a testa, portano a un totale di 2 milioni 286 mila euro l’anno. Sembra tanto. Ma è in realtà molto meno dei 3 milioni e 310 mila euro che costituiscono l’ammontare totale delle diarie (3.503 euro ciascuna) per soggiorno, viaggi, ecc. assegnate ogni mese ai 945 senatori e deputati del nostro Parlamento. Se si aggiunge poi il rimborso spese previsto per “l’esercizio del mandato”, pari a 3.690 euro a testa ogni trenta giorni, si arriva a quasi 6 milioni e 800 mila euro. Sempre al mese, è bene ripeterlo. E senza contare i benefit indiretti delle tessere gratis di autostrade, treni, aerei e linee marittime per gli spostamenti nazionali. Ovvero, in soli 30 giorni le “spese” di deputati e senatori ammontano a quasi il triplo di quelle annuali che lo Stato dovrebbe affrontare per consegnare gratis permessi e documenti ai rifugiati. Anzi, per “coprire” questi 2 milioni e 286 mila euro, basterebbe ridurre di soli 200 euro i 7.193 che tra diaria e rimborsi riceve a fine mese ciascun parlamentare. Sarebbe un “taglio” di appena il 2,78 per cento.    

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