martedì 30 luglio 2013

Contro i profughi e rifugiati barriere sempre più alte e lontane

 di Emilio Drudi
Una barriera in mare e sulle sponde africane del Mediterraneo, rinforzata da una blindatura del confine meridionale della Libia, in pieno deserto, perché i migranti, bloccati prima ancora di entrare nel paese o subito dopo, non possano nemmeno giungere in vista della costa per imbarcarsi verso l’Italia e l’Europa. Sembra questa la sostanza del nuovo accordo tra Roma e Tripoli per il controllo dell’emigrazione nel canale di Sicilia. Ne hanno discusso il premier Letta e il presidente libico Ali Zeidan Mohammed il 4 luglio scorso. I termini precisi dell’intesa non sono ancora noti. Forse ci si limiterà ad aggiornare quella firmata nell’aprile del 2011 dall’allora ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri. Di certo nessun documento è finora pervenuto per l’approvazione alle Camere, il cui parere, trattandosi di trattati internazionali, è indispensabile. Il sospetto è che si stia procedendo quasi in segreto. Le dichiarazioni rese al termine dell’incontro bilaterale sono tuttavia di per sé eloquenti.
“Il controllo delle frontiere e dell’immigrazione clandestina per noi è una priorità”, ha detto Letta, annunciando anche che l’Italia si farà carico di addestrare “cinquemila unità tra le forze libiche”. Ali Zeidan Mohammed gli ha fatto eco ribadendo che la Libia “farà tutti gli sforzi necessari per arginare il fenomeno dell’immigrazione clandestina”. Ha accettato in pieno, insomma, il ruolo di “gendarme” che l’Italia ha assegnato al suo paese fin dal 2009 con il governo Berlusconi e ribadito poi da Monti nel 2011. Non ha mancato, poi, di battere cassa in Europa: “Crediamo – ha detto – che questi sforzi debbano coinvolgere tutti gli Stati del Mediterraneo del nord, con contributi anche sul piano finanziario”. Ed è stato proprio lui a rivelare che la cooperazione con l’Italia comprende il rafforzamento, “con le infrastrutture necessarie”, non solo dei confini marittimi ma della frontiera meridionale, quella in pieno deserto dalla quale entrano in Libia i migranti e i profughi in fuga dall’Africa sub sahariana e dal Corno d’Africa. Quali siano le infrastrutture a cui fa riferimento Ali Zeidan non è stato specificato, ma è facile pensare a motovedette e naviglio minore per il Mediterraneo; automezzi, jeep, fuoristrada, strutture fisse e recinzioni, ecc. per il deserto. E c’è chi sospetta anche armi ed equipaggiamenti militari.
Non una parola, da parte di Letta, per pretendere da Tripoli, come condizione essenziale per qualsiasi tipo di accordo bilaterale, la garanzia dei diritti umani e, in particolare, dei diritti dei rifugiati. Silenzio assoluto sul fatto che la Libia continua a non riconoscere la convenzione di Ginevra del 1951 sui profughi. Totalmente ignorate la terribili condizioni di vita delle migliaia di migranti finiti nelle carceri e nei circa 20 campi di detenzione, che l’ipocrisia del governo italiano continua a chiamare centri di accoglienza, ma che sono in realtà autentici lager, dove i prigionieri subiscono ogni genere di soprusi e violenze, come testimoniano le continue denunce di numerose organizzazioni umanitarie. In particolare Amnesty International, l’agenzia Habeshia, il gruppo Everyone, la stessa Commissione Onu.
“La situazione in Libia è così grave – protesta don Mussie Zerai, portavoce di Habeshia – che non solo gli accordi specifici sull’immigrazione, ma l’intero trattato di collaborazione Italia-Libia, in tutti i suoi aspetti, anche economici e politici, dovrebbero essere subordinati al rispetto effettivo dei diritti più elementari degli africani ‘neri’ che sono entrati a vario titolo nel paese: in fuga da persecuzioni politiche o religiose, per lavoro, come luogo di transito. Non bastano assicurazioni generiche: alla luce di quanto è accaduto finora, occorre chiedere un efficace sistema di verifica e controlli affidato a commissioni europee o dell’Onu. E’ l’unico modo per non diventare complici o addirittura mandanti di fatto dei continui soprusi che si verificano”.
Tutto lascia credere, invece, che il governo Letta seguirà la linea inaugurata da Berlusconi con Gheddafi e ribadita poi da Monti con il primo governo rivoluzionario, affidandosi in toto alla Libia. Così il “lavoro sporco” dei respingimenti a priori, per i quali l’Italia ha già subito una condanna dalla Corte europea per i diritti umani, verrà svolto dalle milizie e dalla polizia di Tripoli, lontano dai confini e dai mari italiani. E senza che i richiedenti asilo abbiano alcuna possibilità di farsi ascoltare. Cancellati e basta. Costretti al di là anche della frontiera del Sahara, in modo che non riescano a mettere piede nemmeno in Libia. E’ l’esatto opposto dell’appello all’apertura e alla comprensione, a una politica diversa nei confronti delle “periferie”, che papa Francesco ha lanciato da Lampedusa, la piccola isola “porta dell’Europa” per i profughi africani, scelta come meta del suo primo viaggio ufficiale proprio per dar voce agli ultimi della terra. Tutti in Italia hanno applaudito le parole del pontefice. Anche nel governo e nel Parlamento. C’è da chiedersi, allora, come si concili questo consenso con le linee del nuovo accordo che si profila con la Libia. Forse ancora più pesante di quello firmato da Berlusconi e da Monti.
A dettare questa linea dura forse è il fatto che in realtà tutto il Nord del mondo sta alzando muri sempre più alti contro profughi e migranti. L’ultimo caso è quello di Israele, che ha completato nei mesi scorsi l’impenetrabile barriera di filo spinato nel Sinai, lungo il confine egiziano, intensificando anche controlli e pattugliamenti. E’ stata chiusa, di fatto, la via percorsa in questi anni da decine di migliaia di disperati in fuga dal Sudan, dall’Eritrea, dall’Etiopia e dalla Somalia. “Il flusso verso Israele – conferma don Zerai – è pressoché cessato. Quasi nessuno fugge ormai attraverso il Sinai dai campi profughi del Sudan e dell’Etiopia, perché le speranze di riuscire a passare sono praticamente nulle. L’unica strada rimasta è quella verso il Nord Africa e in particolare la Libia. Forse per questo l’Italia pensa di spostare la barriera il più a sud possibile, magari lungo la frontiera meridionale della Libia”.
A barriere come questa bussano già adesso migliaia e migliaia di disperati. Pensare di bloccarli con un muro è illusorio, tanto più che continuano a moltiplicarsi i conflitti e le persecuzioni che alimentano il flusso di altre migliaia di disperati. Basta scorrere le cronache. L’onda lunga della crisi di Damasco è arrivata ormai anche sulle nostre coste, come dimostra il numero crescente di richiedenti asilo siriani. La rivolta tuareg e la guerra che ne è seguita in Mali hanno “prodotto” almeno 800 mila sfollati. La maggioranza si è stabilita nei paesi limitrofi: soprattutto in Niger e in Mauritania. Ma non è finita: arrivano notizie di vendette e persecuzioni etniche e religiose e molti guardano ormai all’Europa come unica via di salvezza. Per non dire delle situazioni occulte o sottaciute, come quella dell’Eritrea, dominata da oltre vent’anni dalla dittatura militare di Isaias Afewerki. Solo in Etiopia sono 65 mila i rifugiati eritrei, concentrati in quattro campi di accoglienza, tutti nella regione del Tigrai: Shimelba, il primo ad essere aperto, nel 2004, a 30 chilometri dal confine; Mai Ayni e Adi Harish, più all’interno, ciascuno con 20 mila ospiti; e un quarto, più piccolo e ancora in fase di realizzazione, non lontano da Mai Ayni. Le condizioni di vita sono dure, poverissime. Il governo etiope cerca di fare qualcosa. Ha messo a disposizione, ad esempio, mille borse di studio per i ragazzi, in modo che possano frequentare le scuole o l’università ad Addis Abeba o in una delle altre principali città del paese, facendosi carico di tutto: alloggio, vitto, costo dei corsi, ecc. Consente inoltre ai profughi che hanno parenti in Etiopia di raggiungerli e vivere con loro, lasciando i centri di raccolta. Sono migliaia, in aggiunta ai 65 mila censiti a Shimelba, Mai Ayni e Adi Harish. “E il flusso continua – rileva don Zerai, appena rientrato da un viaggio nel Tigrai e ad Addis Abeba – In Etiopia arrivano dall’Eritrea almeno mille nuovi rifugiati al mese. Il problema grosso è costituito da quelli che vivono nei campi. Lì non hanno alcuna prospettiva. Il paese è povero. Difficilmente lo Stato potrà fare più di quello che sta facendo”.
Nei campi si vive come si vive: baracche di fortuna come casa, un solo centro medico ogni 20 mila persone, servizi quasi inesistenti, nessuna possibilità di lavoro, libertà di movimento limitata, condizioni di grave insicurezza, specie per le ragazze e le donne o per i minorenni, che sono tantissimi, spesso senza genitori o comunque senza adulti che si prendano cura di loro. La polizia garantisce solo la sorveglianza esterna. All’interno del campo non ci sono controlli: può accadere di tutto, è come avere una città di migliaia di abitanti senza alcun presidio.

Don Zerai non si stanca di dirlo: “Vista la vita a cui si è condannati in queste strutture, è normale che alla prima occasione molti tentino di andarsene, puntando verso l’Europa per chiedere asilo come rifugiati, proseguendo la fuga iniziata in Eritrea. La risposta dell’Europa non può essere quella di innalzare barriere sempre più alte e munite, chiudendosi nella sua ‘fortezza’. Quello che occorre è invece una politica di accoglienza più aperta, regolando i flussi direttamente dall’Africa: dall’Etiopia, dal Sudan, dal Mali, dalla Libia. Tramite le ambasciate o con apposite commissioni incaricate di esaminare le domande e i requisiti dei richiedenti asilo, in collaborazione con l’Onu. Si tratta, insomma, di riaprire la strada alla speranza. Perché, sapendo che le richieste di emigrare verranno prese in considerazione, penso che sarebbero molti di meno quelli disposti a sfidare la fortuna, pagando migliaia di dollari a un ‘passatore’, per attraversare clandestinamente prima il deserto e poi il mare, con il rischio di bruciarsi ogni possibilità di essere ascoltati e accolti. Naturalmente vanno migliorate anche le condizioni di vita nei campi, facendone veri centri di accoglienza attrezzati. La soluzione globale, come ha ammonito il papa, è sicuramente nel cambiamento della politica del Nord del mondo nei confronti delle periferie africane, asiatiche e sudamericane. Ma nell’immediato non vedo altre vie per ridurre e riuscire a gestire questo flusso crescente verso l’Europa di uomini e donne costretti ad abbandonare il proprio paese da guerre e persecuzioni, da fame e miseria. Da situazioni terribili spesso create dalle ingerenze e dagli interessi di quegli stessi paesi che poi alzano barriere sempre più alte per respingere e ‘tenere fuori’ migliaia di esseri umani ai quali non resta che la fuga per trovare scampo e un futuro migliore”.

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