venerdì 15 febbraio 2013

Libia: 1.200 profughi rischiano la deportazione. Silenzio sui loro diritti calpestati



di Emilio Drudi
Ci sono oltre 1.200 rifugiati e migranti che rischiano la deportazione dalla Libia verso i paesi d’origine. Nella migliore delle ipotesi, una volta riconsegnati al governo dal quale sono fuggiti, li aspetta un processo per emigrazione clandestina ma, in realtà, lunghi anni di prigione o addirittura la morte. Specie in Eritrea, dove la fuga dal paese è equiparata in pratica alla diserzione dall’esercito. E gli eritrei sono tantissimi: 350 di quei 1.200. Gli altri vengono dall’Etiopia, dalla Somalia, dalla Nigeria, dal Niger e dal Chad. Sono stati tutti concentrati in due carceri del sud distanti tra loro circa 70 chilometri, Sebha e Barika, dove vengono rinchiusi gli stranieri classificati come ammalati. E proprio la malattia pare sia la giustificazione addotta da Tripoli per il decreto di espulsione. Ne hanno parlato anche la televisione e la radio libiche. “Siamo obbligati a prendere questo provvedimento – è stato detto – perché molti di loro sono portatori di malattie ed altri problemi”. “Si tratta di una motivazione assurda e chiaramente a sfondo razziale”, denuncia don Mussie Zerai, il presidente dell’agenzia Habeshia, che sollecita per l’ennesima volta la mobilitazione della comunità internazionale sulla tragedia infinita dei rifugiati. In particolare per il “caso Libia”, dove le violenze contro i “neri” registrano una forte recrudescenza: “Continuano in queste ore le aggressioni e le rapine contro i profughi. Ad Abu Selim, un quartiere di Tripoli, centinaia di migranti devono restare segregati in casa. Hanno paura di uscire, perché ci sono bande di miliziani che rastrellano le strade a caccia di ‘neri’. Se qualcuno esce anche solo per acquistare il pane, viene assalito, derubato e poi deportato al sud, verso il carcere di Sheba. La polizia resta inerte: finge di non vedere. Benché queste aggressioni nascano da evidenti pregiudizi razziali o religiosi. E’ solo questo il vero movente”.
Razzismo e soprusi, dunque. Non problemi sanitari. Del resto, se davvero qualcuno di quei profughi fosse malato, in base alle convenzioni internazionali dovrebbe essere curato, non respinto. Anzi, sarebbe una ragione in più per accoglierlo e dargli  protezione. Ma la Libia non assicura alcuna assistenza medica ai migranti: neanche a quelli che getta nelle sue carceri. Si preoccupa solo di disfarsene. Matura in questo contesto il rimpatrio forzato di quei 1.200 disperati. Nell’indifferenza di tutte le cancellerie occidentali, pur sapendo a quali rischi quei giovani sono esposti. E nel silenzio assordante di tutte le forze politiche. In Italia come in Europa. Colpisce in particolare, per quanto riguarda l’Italia, la posizione del Pd, anche perché tra i temi guida con cui ha inaugurato la campagna elettorale ha posto proprio quello dei diritti. Ne ha parlato lo stesso candidato premier, Pierluigi Bersani, insistendo sul diritto ad essere considerati italiani a tutti gli effetti per i ragazzi figli di immigrati nati o cresciuti in Italia. La giusta affermazione, finalmente, che la cittadinanza non si acquisisce in base al principio razzista dello jus sanguinis ma dello jus soli. Come si fa da sempre in Francia, ad esempio, dove è cittadino della repubblica chiunque vi nasca, a prescindere dalla famiglia d’origine.
Non è un tema sul quale, in seguito, lo stesso Bersani abbia insistito molto. E comunque non infiamma il dibattito politico in questi pochi giorni che mancano al voto. Però ha avuto un certo seguito, tanto che si è accodato, sia pure con argomentazioni molto più sfumate, persino Berlusconi. Su posizioni di chiusura resta solo la Lega. La stessa attenzione, però, il Pd non sembra mostrarla per quei 1.200 migranti che stanno per essere consegnati a un destino quanto meno oscuro e, più in generale, per tutti i disperati bloccati in Libia. Migliaia di giovani, uomini e donne, che hanno raggiunto il paese con la speranza di trovare un imbarco qualsiasi verso l’Europa. In particolare quelli che, sempre a migliaia, sono stati intercettati dalla polizia libica e vivono ora rinchiusi in luoghi che l’ipocrisia del governo italiano chiama centri di accoglienza ma che sono invece autentici lager. Dove non esistono diritti: solo maltrattamenti, violenze, lavoro forzato, ricatti, stupri, torture. La morte stessa. Quei giovani in gran parte sono lì grazie anche alla nostra politica sull’immigrazione. Sono lì per i respingimenti indiscriminati in mare adottati negli ultimi anni e per l’ostinazione a non voler ascoltare il loro grido d’aiuto. Sono lì perché l’Italia ha affidato alla Libia il compito di gendarme del Mediterraneo, per eliminare o quanto meno contenere i flussi di emigrazione dal Nord Africa verso le nostre coste. Sono lì, in definitiva, grazie al famigerato accordo bilaterale siglato da Berlusconi e Gheddafi, sponsor in particolare l’allora ministro dell’interno Roberto Maroni.
Ma di tutto questo il Pd non sembra ricordarsi. Forse perché ha molto da farsi perdonare in questa vicenda, a cominciare dal voto favorevole, in Parlamento, a quell’accordo a due Italia-Libia. L’ufficio esteri del partito pare avesse espresso forti perplessità e lo stesso gruppo alla Camera era in buona parte orientato per il no, ma sarebbero intervenute forti pressioni di vertice ad allinearsi alla volontà del Governo. E, alla fine, tutti si sono piegati. Sulla pelle di migliaia di giovani in fuga da fame, persecuzioni e guerre. Si sarebbe potuto correggere il tiro con Monti, il nuovo premier. Tanto più che giusto un anno fa, proprio per i respingimenti verso la Libia, l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per i diritti umani. Invece no. Monti ha rinnovato il patto generale di amicizia con il nuovo governo libico e all’inizio dello scorso aprile, ben dopo la sentenza di condanna da parte dell’Europa, il ministro degli interni Anna Maria Cancellieri ha firmato con il suo omologo di Tripoli una intesa sull’emigrazione che ricalca quasi passo per passo quella voluta da Maroni. Un’intesa semisegreta. In Parlamento non se ne è discusso. A svelarne il contenuto è stata Amnesty International, con una vasta campagna che si è conclusa con la presentazione al ministro Cancellieri di una petizione europea, densa di decine di migliaia di firme, per chiedere la revoca degli accordi bilaterali. Il Pd è rimasto in silenzio. Anzi, da notizie riservate filtrate dal suo stesso ufficio esteri, è emerso che sarebbe stata stoppata una interrogazione al ministro Cancellieri per chiedere conto del suo operato. Anche in relazione alle ripetute denunce presentate da varie organizzazioni internazionali sulle violenze e i soprusi nei confronti dei migranti da parte della polizia libica e sulle condizioni inumane di vita nei 22 campi di detenzione che Tripoli ha riservato agli stranieri sorpresi nel suo territorio.
Non basta. Un’ottima occasione per discutere finalmente di questi temi si è avuta quando in dicembre, all’indomani delle primarie, Pierluigi Bersani si è recato in visita ufficiale in Libia, quasi in veste di futuro premier. E, invece, non se ne ha fatto cenno. Tante parole sull’importanza dei rapporti politici ed economici tra l’Italia e il governo del dopo Gheddafi, ma non un fiato sul rispetto dei diritti umani dei profughi e dei migranti come condizione preliminare per ogni tipo di collaborazione. Facendo finta di dimenticare che Tripoli non ha mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sulla protezione dei rifugiati. Eppure l’Unione Europea, attraverso le commissioni per i diritti umani e per gli affari interni, appena due mesi prima aveva acquisito un dossier sulla situazione spaventosa a cui in Libia sono condannati gli immigrati e i richiedenti asilo: una denuncia inequivocabile sulle condizioni delle carceri presentata da don Mussie Zerai, convocato in audizione ufficiale a Bruxelles.

Ora si presenta un’altra emergenza. Proprio in questi giorni don Zerai ha raccolto nuove notizie per aggiornare il rapporto sulle carceri, trovando ampia conferma che la situazione continua a peggiorare. E, soprattutto è esploso il caso dei 1.200 rifugiati e migranti che rischiano la deportazione forzata. Anche quest’ultima emergenza è stata segnalata alla segreteria nazionale del Pd, attraverso alcuni candidati al Senato e alla Camera. Ma non ci sono state reazioni. Secondo voci confidenziali uscite dall’ufficio esteri, la giustificazione sarebbe che “questa fase di transizione e di elezioni non consente di fare molto”. “Le Camere sono chiuse e si riuniranno il 15 marzo – è la risposta ufficiosa – La situazione che si prospetta fa ragionevolmente pensare a lunghe consultazioni per la formazione del Governo, il quale sarà attivo non prima di metà aprile. E’ il Governo che può fare effettivamente qualcosa”.
Insomma, tutti zitti “per colpa” delle elezioni. In realtà proprio le elezioni potrebbero essere l’occasione per portare in primo piano questa emergenza, facendone uno dei temi del dibattito politico. Con l’impegno di porla tra le priorità della prossima legislatura e, nell’immediato, di fare pressione sul ministero degli esteri perché chieda conto a Tripoli della situazione nelle carceri e del rimpatrio forzato di quei 1.200 e più migranti. Senza contare un’azione a livello europeo, con i parlamentari di Strasburgo e il consiglio di Bruxelles. E invece no. Si continua a tacere. Eppure, battersi per i diritti di quei profughi schiavi in Libia e pretendere il diritto di cittadinanza per i ragazzi nati in Italia da coppie straniere sono due capitoli della stessa battaglia. Così come combattere per i diritti del lavoro e della salute, degli operai Fiom discriminati dalla Fiat e dei malati lasciati senza assistenza. Dei gay e dei disabili, delle donne emarginate e dei giovani ai quali è stato rubato il futuro, della scuola e dei servizi sociali. Se si lascia fuori anche uno solo di questi punti si mette in discussione tutto. E ne nasce il sospetto che si parli di diritti solo strumentalmente. Con gli occhi offuscati dalla prospettiva di guadagnare o perdere qualche manciata di voti.

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