martedì 15 dicembre 2009

Notte al freddo per i rifugiati

Dalle 18 di ieri presidio no stop di etiopi, eritrei e sudanesi davanti al Comune “Aiutami. Silvia, aiutami. Non voglio vivere così. Ti prego, Silvia, aiutami”. È quasi mezzanotte, piove a dirotto e Bari sta già dormendo: per Osman e per i cinquanta eritrei, etiopi e sudanesi che con lui si riparano dietro le colonne del Piccinni trascorrere la notte all’aria aperta non è una novità, i posti letto nei dormitori bastano solo a poche persone. E poi “il dormitorio non è buono come una casa, va bene per qualche mese e non di più”, dice Osman, “quando sei stanco, quando stai male o sei ammalato, devi stare per strada”. Cinquanta tra richiedenti asilo e rifugiati politici, molti dormono nei giardinetti di Piazza Umberto o vicino alla stazione, altri davanti al Ferrhotel con coperte e materassi di fortuna, mangiano alle mense comunali e fanno la doccia nei centri “Caps”. “A mensa metà di noi mangiano, metà no, e poi solo un pasto al giorno”, continua Osman, “questo chiediamo: una casa, cibo, acqua e lavoro”. Osman è in Italia da tre anni, da due vive stabilmente a Bari: come tutti i suoi connazionali presenti al presidio, è arrivato in Sicilia dalla Libia attraversando il mare, per due giorni su un barcone da dieci persone in compagnia, però, di altri cinquanta esseri umani. In Puglia ha girato tanto per lavorare, conosce bene le campagne del barese perché vi ha fatto da bracciante, sottopagato, “una vita da schiavi, ancora una volta, e non puoi più tornare indietro nel tuo Paese altrimenti ti fanno fuori”. “Sai Silvia, quando vai in campagna tu trovi lavoro, ma comunque dormi sotto gli alberi, sulle olive”, interviene Negasi, “o, se ti va bene, dentro qualche casetta che ti trovano i padroni, sempre nelle campagne, e quanti ce ne sono qui, fatti un giro”. Negasi ha provato a scappare in Norvegia ma per la Convenzione di Dublino è stato immediatamente rimandato in Italia (“è per le impronte, mi hanno riconosciuto e mi hanno detto : vai in Italia che lì avrai i tuoi diritti. E invece gli unici soldi che ho avuto sono stati gli undici euro per pagare il treno da Fiumicino alla stazione Termini”). “Fuori, vai fuori tutti mi dicono”, dal Cara, dai dormitori, dagli ospedali dove si rifugia, peccato Negasi non sappia più dove andare, senza un centesimo in tasca (in tasche precarie, quelle che passa ogni settimana la Caritas) non può nemmeno comprare le medicine: “prego Dio, mi aiuterà, oppure vado al gioco dei pacchi in televisione, che lì si vincono tanti soldi”. Gli eritrei si radunano in gruppetto, bisbigliano, poi mi chiamano in disparte: “ma scusa, voi italiani siete stati sessant’anni in Eritrea, da noi ci sono persino i cimiteri italo-eritrei, ora perché qui non ci rispettate? Non ci riconoscete più?”. Mary e Susanna, eritrea ed etiope dai nomi italianizzati, ventitre anni a testa, hanno due stanzette a Madonnella, la prima fa la badante, la seconda la cameriera: Mary, più riservata, aspetta di raggiungere suo marito a Londra, Susanna, un “peperino”, mi chiede consigli sui pub che cercano personale. Entrambe vanno a lavorare presto la mattina, eppure passano da casa, mettono una tuta e tornano a dormire con i loro connazionali, con una coperta sul pavimento del Piccinni, loro sì che non dimenticano chi sta peggio. Le accompagno a casa. “Dai, dammi il tuo numero”, Susanna mi abbraccia, “io cerco amici qui, vienimi a trovare: un giorno di questi ti preparo un bel pranzetto”.

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